La fotografia è arte oppure no?
David Bate afferma che è una “forma fondamentale dell’arte moderna” entrata e riconosciuta negli istituti d’arte a partire dalla fine degli anni Ottanta.
Ovviamente concordo, anzi direi che si sta velocemente affermando come una delle principali forme d’arte contemporanea sempre più riconosciuta come tale dalla gente comune.
Perché è questo che conta:avere un rapporto continuo con le persone che acquistano arte, non solo con i collezionisti che appartengono ad un mercato più alto e rarefatto, ma tutti coloro che si innamorano di un quadro o di una fotografia e cercano di possederla per poterne godere ogni giorno.
Per farla entrare nella loro vita quotidiana.
La pittura, ed oggi la fotografia, fatta salva la necessità interiore dell’autore, ha il compito di arredare uno spazio costruito sia esso pubblico o privato.
Si pensi a quanto sarebbe spoglia la stazione centrale di Milano senza le immagini pubblicitarie di grande formato che la arredano.
Così in un mondo formato prevalentemente da fotografie, dobbiamo cercare di distinguere quali di queste possono essere considerate “artistiche” e quali no.
E’ evidente che l’invenzione dell’ elaborazione digitale ha reso, almeno apparentemente, l’approccio alla parte tecnica molto più diretto e gestibile rispetto ai tempi in cui si doveva sviluppare e poi stampare la pellicola.
La semplicità è solo illusoria perché dal punto di vista tecnico, se ci si vuole davvero occupare di tutti gli aspetti dell’immagine, la complessità è assai maggiore di prima.
Ma questo non riguarda i sette miliardi di potenziali fotografi presenti sul nostro pianeta, perché per loro sarà sufficiente scattare e vedere immediatamente il risultato sullo schermo del telefono, del tablet o della reflex.
La difficoltà della fotografia a farsi riconoscere e considerare come arte dalla gran parte delle persone sta proprio nell’apparente facilità con cui è possibile realizzare un’immagine, a differenza di un dipinto ad olio o di una partitura musicale, magari del passato.
Il primo livello dell’arte è la difficoltà tecnica, la bravura dell’artista a costruire fisicamente l’opera.
Questo è il principale elemento di fascinazione ancora oggi, malgrado un elenco smisurato di artisti abbia cercato in tutti i modi di convincere lo spettatore che è l’idea quella che conta, il concetto che essa porta con se e non la sua realizzazione; il primo incontro con un lavoro artistico rimane quello della difficoltà ad essere realizzato.
Anche dopo Duchamp e la sua provocazione del ready made che ormai ha superato i 100 anni e dopo Sol Lewitt che teorizzava l’autonomia dell’idea dalla sua realizzazione fino a fare costruire le proprie istallazioni da altri attraverso istruzioni precedentemente scritte.
Per gli addetti ai lavori ( autori, critici e collezionisti ) il problema non esiste, ma per la maggioranza delle persone che si avvicinano all’arte il tema è ancora di grande attualità.
La maggioranza delle persone non sa ad esempio che Botero, Koons e tanti altri, non realizzano fisicamente le loro statue, perché per farlo ci vogliono officine specializzate.
Pensano alla magnificenza della Pietà di Michelangelo e della sua reale capacità di usare lo scalpello personalmente per plasmare il marmo.
Perché la Pietà l’ha pensata, disegnata e scolpita lo stesso autore e questo non è un elemento trascurabile, malgrado buona parte della storia dell’arte del secondo Novecento tenti di affermare il contrario.
Non mi considero un conservatore, utilizzo tutta la tecnologia che il XXI° secolo mette a disposizione per realizzare i miei lavori e per vivere, ma credo che un passo indietro verso il ritorno al saper fare, farebbe un gran bene a tutte le forme d’arte.
E per fare questo, ci vuole tempo.
Tornando alla domanda iniziale,sono d’accordo con Carlo Fontana quando dice che la fotografia (quella d’autore) la fa la testa e non la macchina fotografica; però se tutto il processo venisse interamente realizzato dall’autore ed in qualche modo certificato, penso che darebbe un valore aggiunto all’opera.
Molti autori questo ormai lo fanno da tempo e cercano di trasmetterlo ai potenziali fruitori perché sanno bene che la parte tecnica è comunque importante, assieme all’unicità dell’opera.
L’unicità dell’opera è l’altro punto debole verso il riconoscimento globale della fotografia come arte.
Sull’unicità oltre al citatissimo Benjamin, c’è una letteratura sterminata a cui chiunque può attingere per ragionare sul tema; a me preme sottolineare che in realtà non esiste una stampa uguale all’altra se non fatta nello stesso giorno, dalla stessa stampante con la stessa confezione di carta, perché basta cambiare solo la confezione (non la marca) perchè il risultato sia differente.
Quindi, oltre al necessario limite imposto da ogni autore, le stampe sono comunque tutte uniche.
Ma allora come si fa a capire se una fotografia è degna di essere chiamata “artistica” oppure no?
Ovviamente non c’è una risposta univoca.
La risposta che si è data Maria Cristina de Zuccato quando ha fondato la galleria Noema Gallery assieme a me, è stata quella di cercare fotografie in cui si riesca a leggere il tempo.
Il tempo inteso come luogo metafisico necessario per capire, ragionare, pensare.
L’arte, come l’essere umano, ha bisogno di un’estensione temporale ampia per potersi manifestare ed essere compresa e la nostra indagine si è orientata alla ricerca della lentezza, in opposizione alla contemporaneità che fugge dal lento e consuma tutto velocemente.
L’elogio della lentezza, oltre ad essere un titolo molto amato in letteratura, è l’auspicio che faccio all’arte fotografica; benché possa sembrare un ossimoro per un mezzo che si esprime in millesimi di secondo, in realtà la creazione dell’immagine nel pensiero del suo autore ha una formazione quasi carsica.
Ecco già questo potrebbe essere un metodo per cominciare a distinguere fra una fotografia con aspirazioni artistiche ed una fatta tanto per fare; con la raccomandazione che lento non significa andare in giro con pesantissimi cavalletti di legno sulle spalle e con macchine fotografiche dalle dimensioni gigantesche.
Quella forma di lentezza la associo alla preistoria, al desiderio anacronistico di una forma pedissequa di ritorno al passato, certamente poco utile alla costruzione della contemporaneità.
Per noi la lentezza è legata alla costruzione del progetto, al tempo necessario per pensarlo ed elaborarlo, non al tempo che ci vuole per salire su un sentiero con venti chili sulle spalle ed uno straccio nero in testa come si faceva nei secoli scorsi.
I lavori selezionati da Noema Gallery sono in parte visibili a Milano in una mostra che sarà presente fino a marzo 2017 negli splendidi spazi di DePadova in via Santa Cecilia 7.
In quel luogo si è cercato di unire l’idea di arredamento, lentezza e piacere nel circondarsi di oggetti che possano contribuire a farci vivere meglio.
Ecco perché l’arte vuole tempo.
© 2016 Aldo Sardoni | Milano
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