JAZZ ICONS OF THE ‘60s + FUTURE CITIES VISIONS = ROBERTO POLILLO FOTOGRAFO

 

MOSTRA A PALAZZO VELLI | 8 – 28 MARZO  2019 | PIAZZA SANT’EGIDIO ROMA | INAUGURAZIONE VENERDI’ 8 MARZO ORE 18.00

Roberto Polillo in questa mostra ci presenta chi è stato e chi è.
La prima parte racconta del suo lavoro fotografico quando era giovanissimo, del suo girovagare affianco al padre, critico musicale, che lo portava a vedere i concerti jazz di cui poi doveva scrivere.
Immagino sia stato un periodo bellissimo, fortunato e denso di avvenimenti che certamente pian piano si sono depositati nella mente di un ragazzo che aveva accesso a luoghi impensabili per i suoi coetanei.
Ha fotografato tutti i più grandi, Armstrong, Davis, Fitzgerald e molti altri straordinari musicisti dal 1962 al 1974, costruendo un archivio fotografico di grande valore molto apprezzato dal pubblico.
Tuttavia, malgrado il rilevante successo del progetto,  credo fermamente che sia più interessante e significativo il Polillo del XXI° secolo.
Le fotografie di Jazz Icons of the ‘60s sono fortemente distratte dal soggetto fotografato, che quasi sempre è un’icona del jazz mondiale. L’autore è sovrastato dalla grandezza del protagonista del’immagine, non ha la possibilità di avere un rapporto più intimo e biunivoco con esso, si trova immerso nella folla e cerca come può di raccontare quel momento.
Lo racconta in maniera elegante, tecnicamente accorta e, vista la giovane età, non se la cava per niente male.
Ma il pubblico, quando osserva le immagini, apprezza più il fotografo o il fotografato?
Sono sempre stato convinto, che in questi casi si sia maggiormente attratti dalla notorietà del soggetto fotografato e non dalla fotografia in se; il fotografo fa un passo indietro ed in qualche modo produce un servizio semplicemente registrando quello che è accaduto.
Realmente accaduto.
E’ una fotografia in cui ciò che accade si vede.
Il reale coincide con l’immagine.
Armstrong, Davis e gli altri compaiono esattamente come vogliono essere percepiti dal mondo. Il passo indietro del fotografo si esplica attraverso la voluta trasparenza, così da permettere l’incontro fra Star e pubblico. Non vi è intermediazione e probabilmente anche questo è un aspetto che attrae l’osservatore, che fa apprezzare il progetto al grande pubblico.
Il Roberto Polillo di oggi ovviamente è un’altra persona, il mondo è cambiato rispetto agli anni Sessanta, a volte sembra addirittura di essere su un altro pianeta.
Polillo è diventato un intellettuale nel senso aristotelico del termine, cioè colui che affina i saperi dell’arte e della scienza.
E’ professore all’Università di Milano, è un fisico, è un abilissimo imprenditore in settori all’avanguardia come l’informatica ed il web e molto altro ancora. Insomma è arrivato nel XXI° secolo senza rimpiangere il  XIX°.
Questo breve racconto potrebbe sembrare un panegirico dell’autore in realtà vi assicuro che non lo è, ma per capire la complessità delle sue fotografie è necessario, seppure sommariamente, comprendere il percorso e lo spessore dell’uomo che le ha prodotte apparentemente calmo e silente in realtà profondamente curioso ed attivo.
Future Cities Visions, come accennato inizialmente, è il Polillo reale benché possa sembrare un ossimoro parlare con lui di realtà visto che nelle sue immagini il reale diventa un’altra cosa.
L’irreale diventa reale, le città sono raccontate in maniera antitetica alla narrazione del jazz. Non sono come noi vogliamo che vengano percepite né come ce la aspettiamo, sono tutt’altra cosa.
Un luogo onirico e del pensiero.
Una fiaba.
Un magnifico racconto in cui l’autore ci porta per mano facendoci riconoscere i luoghi attraverso forme accennate e riconosciute, attraverso la luce, ma poi ci invita a vedere il mondo da un altro punto di vista.

Costruisce un’emozione e la rende visibile.
Si pensi ad esempio alle immagini di Venezia, in cui si percepisce la presenza di una gondola o la luce sull’acqua del Canale ma non si distingue perfettamente il resto perché l’intento è quello di fotografare l’infotografabile: le nostre sensazioni. Ognuno vedrà ciò che è, ciò che sa, ma soprattutto ciò che prova. Ciascuno in modo diverso, perché non ci racconta la realtà così com’è ma ci dice una cosa, anche grazie ai suoi studi di fisica, che lui sa bene: la realtà non esiste.
Esistono tante realtà.
Così il lavoro sulle Cities incrocia la fisica e la filosofia (1).
Ragionare sulla realtà è proprio quello che fanno le due discipline.
Tutto il lavoro è denso di significati, ha un proprio linguaggio estremamente riconoscibile, contiene tratti di unicità e legami con la storia dell’arte più o meno consci che lo portano su un piano diverso dalla fotografia di reportage, elevandolo a quello più raffinato di autore.
Roberto Polillo diventa così un autore fotografico, con uno statuto intellettuale diverso da quello di un fotografo (2), entra in connessione con chi lo ha preceduto, ragiona, costruisce, trasforma per arrivare a fornirci un prodotto riconoscibile e dotato di pensiero e se fosse vero che  “ per qualcosa essere un’opera d’arte in un tempo qualsiasi significa essere intenzionalmente connesso ad opere che la precedono “ (3), allora vedo una forte connessione con Francis Bacon pensando al suo Head VI o allo Studi del ritratto di Innocenzo X.
Polillo trasla in fotografia la tecnica pittorica di Bacon arrivando al risultato opposto, non solo per l’evidente differenza del mezzo espressivo ma soprattutto per il diverso modo di concepire il mondo.
Il pittore indaga i tormenti dell’anima interpretando la vita come luogo di dolore e sofferenza, il fotografo ci dice che la vita vale la pena di essere vissuta specie se aiutata dal sogno.
“Ho sempre sognato di dipingere il sorriso ma non ci sono mai riuscito” diceva Bacon. Polillo potrebbe dire di averlo dato, il sorriso, seppure nei pochi istanti in cui ci porta dentro il mondo incantato delle Cities.
Infine vorrei annotare brevemente una riflessione sul passaggio fra Jazz Icons of the ‘60s e Future Cities Visions, l’unico che trovo interessante porre all’attenzione di chi legge.
Il primo progetto è stato realizzato in pellicola e con la conseguente tecnologia oggi definita “analogica”.
Il mondo era meccanico.
Il lavoro risulta estremamente coerente da questo punto di vista anche per la scelta del bianco e nero che non era dettata, come si fa oggi, da leziosità estetiche ma dall’obbligo dato dalla gestione del supporto sensibile che così poteva essere trattato personalmente dal fotografo senza passare dall’intermediazione dei laboratori specializzati, cosa che non si sarebbe potuta avere in caso si fosse utilizzato il colore.
Il periodo analogico quindi era caratterizzato da una forte manualità. I mezzi a disposizione (fotocamere, fasi di sviluppo, ecc.) erano legati alla meccanica, costituiti da elementi semplici per i quali era richiesta una notevole capacità d’uso delle mani per la loro gestione.
Il digitale ci ha portato in un mondo completamente differente.
Tutto accade in luoghi generalmente sconosciuti ( i processori dei computer) e la manualità è quasi scomparsa, come peraltro in numerosi altri campi (si pensi ad esempio alla differenza fra il motore di un’automobile del periodo analogico rispetto a quello digitale, oppure a come si guida oggi un aereo rispetto ad allora). Non sono interessato ad un giudizio di merito sui due metodi fotografici perché ritengo sia inutile e sciocco paragonarli. Fanno parte di momenti diversi della storia dell’umanità.
Polillo dimostra di esserne pienamente consapevole, a dispetto dell’anagrafe che lo vorrebbe ancorato all’analogico, utilizza esclusivamente il digitale ed il colore attraverso peraltro una fotocamera molto avanzata e di difficile gestione.
E’ perfettamente integrato nel tempo che vive.
Del periodo analogico ha portato con se però un elemento caratteristico che ha reso uniche e riconoscibili le sue fotografie: la manualità.
Tutte le sue immagini non sono frutto di alchimie informatiche ma del movimento, orizzontale, verticale e a volte circolare della fotocamera nello spazio. Esattamente come un pittore astrattista muove il mezzo espressivo per dipingere figure immaginarie sulla tela che poi si trasformano in quadri, egli costruisce nello spazio disegni apparentemente inconsistenti che poi magicamente prendono forma diventando fotografie.
In questo senso si può dire che è uno dei pochissimi fotografi che ha portato il sentimento analogico nel digitale senza nostalgia, legando due mondi diversi che ha avuto la fortuna di incontrare e la capacità di interpretare per portarci in un viaggio con le nostre realtà, costruendo così un rapporto diretto ed univoco con ogni singolo spettatore.

© 2019 Aldo SARDONI
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NOTE
(1) Il tema della realtà è vastissimo, si pensi anche a ciò che scrive Hilmann “I dizionari e le scuole di psicologia di qualsivoglia tendenza sono concordi nell’affermare che esistono due tipi di realtà. In primo luogo, per realtà si deve intendere la totalità degli oggetti materiali esistenti, ovvero la somma delle condizioni del mondo esterno: la realtà è pubblica, oggettiva, sociale e, di norma, fisica. In secondo luogo, esiste una realtà psichica, priva di estensione nello spazio, la sfera dell’esperienza privata, che è interiore e caratterizzata dal desiderio e dalla fantasia”.
James Hilmann, L’Anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi, Milano, V° edizione 2008, p. 123

(2) Non è questa la sede per ragionare sulle differenze fra le due figure benché il tema si di grande interesse ed attualità, ma è evidente che l’autore cerca un racconto attraverso un sapere ed una scrittura fotografica, così come il romanziere fa con la propria penna, a differenza del fotografo che cerca di eseguire quanto più professionalmente possibile, il lavoro affidatogli.

(3) Levison, Defining Art Historically, in The British Journal of Aesthetics, 1979, pp. 232-247